Quia absurdum est
Quia absurdum est
(Tratto dal catalogo "Prisco De Vivo" - Arco&Arco Edizioni 2006)
Sfilano i trascendenti, senza corpo, senza peso, tesi in una verticale che somma vertigine a suono d’inudibile tromba del giudizio; una sfida ai sensi travolti di vista e olfatto, di tatto e udito, come di
pieno opposto a vuoto, di odore che richiama il lezzo, come palpeggio che trattiene l’urlo,come ascolto che desidera il nulla. E così vanno, come una teoria maledetta, a seguire un’icona malata, specchiata in una trappola, come fucina di follia, a celebrare un rito, un mito et un coniugo vos, come può avvenire in un teatro d’assurdo, di capovolgimento in matrimonium, di cielo che fa terra e di terra che (inevitabile!) fa cielo.
E vengono poi le modelle, sconvolgenti, come rami e serpenti che inseguono il mondo e lo fanno correre, in labirintum che si fa accarezzare e poi fugge, morde, lambisce come una sirena bagnata, oleosa, che attira nel fondo dove vige il potere, il peso grave e oscuro di una carezza, di un seno rovente, di una coscia proterva come due labbra carnose di una lingua alata di vento, come Sibilla di ventre nascosto, assopito, subito fremente, eccitato, da un racconto di Sade. Figlie del tempo, copie
di un terribile cronos che tutto mangia, inesorabile, spietato, senza pietà per le piaghe, amante delle rughe profonde e delle bocche sdentate, come Eros lacerato.
Nei collages si sente un rumore d’officina, di lavoro della manipolazione, per mettere insieme un po’ di cronaca, un po’ di aritmetica, di scomposizione del vizio, dell’erezione, della mania di fare astrazione, di non accontentarsi di ciò che si è, ma di fondare ciò che manca al destino nel luogo del desiderio stesso, brandendo la curva della falce, come scuro di luna che non s’adatta alla vista,ma spinge al complotto come le erinni alla vendetta,senza sapere mai dove andare dove finire il quadro immaginario di una parte scomposta, di una photo che s’adatta ai filamenti di un segno a matita, d’ una macchia spalmata, messi insieme come ibrido che si erge a scambio simbolico tra essere e nulla.
Degli infanti, che dire, se non che ti guardano fissi, non ti lasciano gli occhi, in un rapimento iniziatico d’innumerevoli sconfinamenti, con l’inquieto apparire di fantasmi ingenui come enigmi quiz di un teatro di Artaud, in cui appaiono incubi d’espressionismo nero, freddo. Da essi ti puoi aspettare di tutto, che sputino fuoco come demoni, oppure gli spuntino le ali di angeli, che ingaggino una lotta tra presente e futuro, tra imperfetto e passato prossimo, come si conviene in un fantastico, irreale, tutto scomposto in tagli trasversali, trama ora fitta, ora lasca, vela che ruba vento e diventa imbuto per riempire una testa e volgerla al sogno di un sogno mai sognato, di una luce mai vista,nel regno alienato del sé.
In omaggio a Kafka, c’è un incipit compromesso con i tratti di una depressione universale, totalitaria, dovuta all’impossibile sentirsi intero e d’essere fatto di stessa carne, di stesse ossa, stesso sangue, mentre sopraggiunge l’agguato di un evento, terribile, imprevisto, di un pezzo che si stacca dal tutto e finge d’essere un tratto normale di penna, intinto in inchiostri diversi per narrare storie d’ordinarie metamorfosi, frutto d’arcane perversioni, tratte da mitologie scolorite, nelle vite di uomini da
nulla, ragionieri senza ragione, assennati senza senno. Su tutti vige l’imperium del poi, di un volgersi in avanti, come se fosse un volgersi all’indietro, tanto l’uno vale l’altro, tanto l’uno è l’altro, i colori si conficcano come aghi nelle carni flaccide della malattia.
Le croci in bocca sono un orrido pasto, una grana di troppo, tra dente e dente, di troppo anche a simulare uno strappo dell’ordine delle cose,come se tutto fosse consentito, anche di mangiar carne e bere sangue, come in una dissacrata ultima cena, che diventa emblema della nostra identità sconvolta, costretta a dibattersi in una dialettica collosa, che attacca tutto, ma tutto sfigura, facendo perdere connotati alla storia col suo proiettarla in una antitesi che è figurale e concettuale, tra una trasgressione blasfema e una narrazione d’assurdo. Immagini ambigue, dal sesso indefinibile, portano in bocca il nostro simbolo millenario, quasi ad emblematizzare un travaglio che ogni volta deve passare per turbamenti senza fine.
Al poeta nero, chiamato per nome, s’immola un teatro, un modo per ammaliare se stessi, senza cambiare il proprio nome, senza dover subire interrogatori psicologici, sulla propria fede e sui propri dubbi, attraverso l’escursione di un volto che genera il proprio essere in un altro essere, in uno sconcertante parto che viene dalla nomenclatura orale, dove passa la parola, l’origine di tutti e l’origine di tutto, dando al visibile il confronto con il gramma dei suoni. La poesia traumatica di Antonin è fatta di regole nomadi infrante, di frammenti, taglienti, di ogni regola astratta senza un bagno nel sudore, nel farneticare del linguaggio della follia, solo l’enigmatica querelle posta da Cioran, la può sfiorare senza essere spellata viva dalla sua pelle ruvida, urticante, tagliente.
L’enigma delle macchine da cucire, non si rivela affatto, ma resta come implosione voluta tra sessualità negata e macchinalità invadente,che si sposta come un erpes dal corposo seno all’esile testa, da un approccio impossibile ad un orgasmo pazzesco, duro rotolante, come una alienazione di un ripido picco, a girotondo, in un eterno ritorno tra uomo/donna e deus/machina, che avvolge l’età della pietra e quella del virtuale, come un genealogico,radicale, bisogno di prolungamento del nervo invisibile della mente eterea con la traccia macchiata del corpo essudato. Con l’aiuto sfacciato di Ermete, sigillo di tutti i segreti, confessore di tutti i dannati si compie lo scandalo che fu di Giacometti ed oggi diventa sigla di tutta una sfilza di nomi del negativo, dell’ assurdo, dell’irripetibile.
Le bamboline rosse, frutto inquieto di una schizoide aporia, sono linguaggio fatto di tutto e di niente, come il pasto nudo, irripetibile, fatto di sensi alcolici,espressivi di un genio incartato, che agisce nel segreto di sé e deve inventarsi tortuosità invereconde che gli permettano di desiderare il ritmo che suona la tromba di geometria, in architetture dove si perde ogni direzione di marcia e si rischia
di girare intono a se stessi, credendo di andare lontano e piantare graffiti di un i.t.i.n.e.r.a.r.i.u.m. che non esiste neanche come schizzo di grotta platonica o di esalazione palustre che fa vedere al buio, oltre il buio, ma copre il sole allo zenith. Lo sforzo è compiuto, arduo, nella definizione delle misure che permettano a pochi iniziatici di capire e lasciare tutti gli altri in mezzo al guado torbido, limaccioso.
Non c’è di meglio che mettersele in bocca, queste bamboline, come una prova primitiva, infantile, di intelligenza, fatta col principio originario di piacere, che può tramutarsi in (C) Hannibal che veste
da studioso con i guanti, perché sotto le unghie ha la pelle di tutte le metafore che sono state scorticate, sezionate, fatte a piccoli tocchi, di una fagia sadica che strappa pezzi di cuore, di cervello, per fare un intruglio che ha paura della luce del sole e teme gli schizzi della regione. E si chiama convivio il luogo dove psichiatria, psicologia e un po’ di magia, condita con tanta alchimia, si contende gli idola fori con i fossati che de rerum natura hanno scavato, per difendere le stanze della purezza, dove opera pura, come fonte di monte, la gutta, in distillazione del puro sentimento e dell’emozione.
L’imbuto e il suo psicodramma, si presentano come una summa di differentia, in scambio tra dentro e fuori,in rapporto tra ombra e luce, tra i mostri del pensiero, che si agitano in tutti e ciascuno e influenzano la nostra immagine esterna, avvolgendo lo sguardo, la forma mimica e mimetica del volto, l’ottusità degli occhi. Si tratta di una forzatura che opera nella fenomenica dell’imitazione e dell’identificazione come prova della materia di farsi carico di una deriva esistenziale, in un organigramma visivo che sembra l’emblema delle sette piaghe, di una sofferenza invisibile che diventa colore dominante, affermazione di un saturnismo spalmato, che in questa occasione si concentra e diventa habitus di un malessere, di cui la poetica ne trae una linfa vitale, di gestualità imprevedibile di filo e di segno.
Al riparo di una grande cupola, si avverte un senso d’insicurezza che viene parzialmente ottemperato, ma la questione non viene risolta una volta per tutte, piuttosto segnala una sofferenza da pesantezza che incombe su tutto e sprigiona un effetto che Edward Munch e Francis Bacon avrebbero trovato come schermo di un universo di saperi sepolti, genealogia e frutto di malattia diffusa, una schizofrenia che influenza tutti i segmenti, le molecole, che portano da una fisica ad una metafisica, sotto il segno della deviazione che è imperium di un essere soli, quando si è soli,ma di un essere soli anche quando c’è una gran folla. La solitudine richiama sempre le cause e gli effetti dell’incomunicabilità, che non è un elogio del silenzio, bensì il trionfo del caos, in cui tutto viene stravolto,tramutato nel proprio opposto.
Le scarpe di Auschwitz, assunte come pensiero da mettere in testa, come defecazione fatta con sforzo e dolore, come statuaria indefessa, come tremolante cappello, come prolungamento di lingua, come labirinto in cui cercare e cercarsi, perdersi e trovarsi, provando e riprovando un’iconografia che assume corpo di sofferenza come degrado dell’umano, schiacciamento del divino, perdita del pensiero e della storia, sparizione stessa della civiltà. In sostanza, avviene una tragica assunzione di responsabilità, che è filosofia, morale, estetica, della sofferenza inflitta, come mezzo necessario, per un progetto utopistico, per cui non c’è posto per i diversi, che esprimono dubbi, interrogativi e sollevano obiezioni sul destino e sulla via, meritando di non appartenere ad alcun paradiso di ebeti e sciocchi.
La malinconia dell’uovo è un occhio puntato sull’impossibile destino a cui volersi sottrarre, all’inevitabile trappola della morte, alla sua lenta e scivolosa attrazione che porta dall’essere al non essere, con una progressiva, ineluttabile decostruzione del corporale e dello spirituale, come attenuarsi della vista, del tatto e dell’udito, come contemporanea perdita di velocità, fino ad impattare con l’immobilità, con il rigor mortis, che dura poco anch’esso, perché quasi subito riprende il conteggio di dissipazione e dissoluzione. La malinconia, confina con la depressione, con la quiete nella non speranza, quando l’attesa, ogni attesa, si è consumata non resta che un varco, un solo varco, attraverso cui passare con la fantasia per assorbire il negativo del negativo e tradurlo in ignoto.
Le figurazioni dell’incomunicabilità sono infinite, senza rapporto con il senso comune, con la fantasia, col malessere, in quanto scontano una poetica che si è fatta narcisismo, un narcisismo che si è fatto solipsismo, un solipsismo che si è fatto autismo, un autismo che si è fatto alienazione, un’alienazione che si è fatta reificazione, dopo di che non c’è che il nulla, senza emozione e senza memoria. Ecco quello che può accadere all’umano, quando è lasciato precipitare nell’imbuto ineluttabile per una maledetta forza di gravità, che impedisce di volare, ma anche di muoversi e cercare, inchiodando pensiero e parola in una simulazione oscillante tra impossibile prometeico che trama per liberarsi e la catastrofe della divina creatura.
Giordano Bruno, in ipotetica riemersione dalle ceneri, che è il resto di un rogo tanto reale (allora) quanto immaginario (oggi), vissuto e scontato nel profondo della ragione, così come il suo ergersi titanico dalle bolgie infernali, tra fiamme dogmatiche e blasfeme di un loco che nega la luce e con essa
nega il piacere di un paradossale sapere lucifero. Nel tripudio e nell’orgiastica festa in cui si muore e si viene concepiti, l’ignoto è concepito come uscita dello spirito dall’impotenza che si scaglia col proprio veleno nel petto del possente nella mente del filosofo, con bava d’invidia che somiglia alla serpe goffa dell’ira per l’esistenza stessa dell’altro, anche quando è ridotto ad escremento del fuoco, dove tutto dovrebbe tacere.
Teatrum, è luogo del perimetro esistenziale, dove è possibile mettere in scena ciò che altrimenti sarebbe destinato ad apparire nel sospiro della notte, come prova delle provocazioni e delle straniazioni, delle lacerazioni, di tutto quanto, insomma, che genera ossessione, istinto, perversione, dell’uno contro tutti, del sentirsi impotente mentre gli altri possono tutto, dell’essere legati a un ceppo, mentre gli altri si muovono liberamente. E’ il fantasma della libertà, che si snocciola come un rosario, senza accusare nessuna stanchezza, anzi acquistando, col ritmo del proprio muscolo cuore, un’anabasi che porta a Sisifo, in un incontro senza inizio e senza fine, dove le strade non s’incontrano mai e forse non esistono,
L’incipit della poesia, non si discosta da quello della pittura, con essa costituisce un doppio che rafforza la capacità di penetrazione e accelerazione delle meccaniche mentali, mosse come particelle atomiche, prima di essere state prese nella rete delle tensioni mistiche e sensuali, filosofiche e razionali, di monologhi e pensieri, di una vasta gamma di messe in scena dell’intimità che si dona, velando e svelando la parola, con un ritmo vario, ora duro e guerresco, ora leggero e gentile. Si porge come una investigazione fantastica adagiata su riso e su pianto, sulla liscia pelle o sulla piaga purulenta perché questa è la sua vera missione, il suo compito tra noi in un gioco imprevedibile di servo e sovrano, in gloria mundi.
Francesco Gallo