Le liaisons dangereuses su Antonin Artaud

Le  liaisons dangereuses del delirio come arte: Prisco De Vivo su Antonin Artaud
(Testo scritto sul catalogo "Al Poeta Nero" Effemme ed.)

 
 
“(…) i pazzi sono le vittime individuali per eccellenza della dittatura sociale; in nome di tale individualità, che è la caratteristica di ogni uomo, noi reclamiamo che questi forzati della sensibilità vengano liberati, dal momento che è egualmente al di fuori delle leggi rinchiudere tutti gli uomini che pensano e agiscono.”  (A. Artaud)
 
Artaud passò gli ultimi dieci anni della sua vita in diverse case di cura e in manicomi con il loro “cibo spaventoso”. Le diagnosi sulla sua anomalia risultano piuttosto controverse: nonostante ciò, o grazie a ciò, espresse una creatività variegata,  drammaticamente  originale ed unica.
 
Saltuariamente scriveva  lettere agli amici (talvolta non spedite), con cui intendeva comunicare, più che delle missive, ipotetiche specie di incantesimo o formule magiche, con la persistente convinzione che forze minacciose extraterrestri si fossero insinuate nella sua esistenza: le parole non potevano, quindi, essere sufficienti per estrinsecare l’ incombente minaccia. Antonin vi tracciava sopra immagini sezionate, ossessive, con richiami evidenti al misticismo, alla sessualità,  alla morte.
 
I suoi disegni risultano “perturbanti” presenze, travestite da testi-immagine d’arte, racchiudendo un mondo di turbamenti, erotismo, alienazione: “(...) non sono dei disegni ma dei documenti, bisogna guardarli e capire quello che c’è dentro”. Debbono essere visti come “discese” negli inquietanti “passaggi” di una pazzia, drammaticamente autentica  nello  snodarsi  attraverso  le proprie stagioni.
 
“Che cos’è poi un pazzo autentico? E’ un uomo che ha preferito lasciarsi andare alla pazzia, nel senso in cui la società intende questo termine, piuttosto che diventare falso rispetto ad un’idea superiore di dignità umana. (…) Perché un pazzo è anche un uomo  che la società non ha voluto ascoltare e che ha voluto trattenere dal pronunciare insopportabili verità.”   (A. Artaud)
 
Con queste accalorate parole Artaud difese “Van Gogh, le suicidé de la societè”. Si identificava con lui, ricercando l’essenza, sfuggente, della natura stessa della follia, e riflettendo sull’atteggiamento della società verso questa. Era consapevole,  fin dagli inizi della sua attività, di soffrire di disturbi mentali e interiori, ma era altresì consapevole di rappresentare “un caso” di notevole interesse: ciò lo soddisfaceva (la sua anomalia è uno dei casi psicologici meglio documentati). La vivezza, con cui descrisse le sue difficoltà espressive, insieme alla sincerità e alle contraddittorietà dei suoi sfoghi, rappresenta ancora oggi una profonda penetrazione nelle pieghe e ferite della psiche umana.
 
La coscienza  di essere un diverso, predestinato alla sofferenza, assumeva una componente vitale nel suo senso di identità,  con l’orgoglio di essere un individuo eccezionale, un genio, non certamente un uomo normale (né avrebbe mai desiderato esserlo). Polemizzava con la società che lo aveva  internato per così tanto tempo, nonostante non avesse compiuto azioni di rilevante gravità verso alcuno. Si considerava   “parte del gruppo eletto dei Nerval, dei Poe, dei Nietzsche, dei Kirkegaard, degli Holderlin, dei Coleridge (...).”
 
Nell’opera e nel pensiero di Artaud c’è la drammatica convinzione  che la cultura e l’arte non  siano esclusivamente presenti nei libri o nei quadri, ma anche, come evoluzione naturale, nei nervi  e nella loro fluida “nervosità”. Il corpo stesso poteva richiedere, come prova d’esistenza, una sofferenza estrema, anche per conoscere la degradazione e il marchio dell’iniziazione  “pericolosa”.
 
Le liaisons dangereuses del delirio hanno contagiato la contemporanea creatività: basti pensare alle influenze sui linguaggi corporali, soprattutto  quelli  eccessivi e cruenti della Live-Art, in cui “il teatro della crudeltà”  diviene catarsi rossa (come sangue e ferita interiore). Il “filo rosso” può comparire, anche, nelle “rappresentazioni”  d’arte: nelle visioni e  materie della pittura e scultura stesse, “segnando”  un corpo espressivo  e di pensiero.
 
Il “transito” contaminante arriva  alle immagini di Prisco De Vivo, dedicate ad Artaud “il poeta nero”, che emergono dal suo personale laboratorio sensoriale-filosofico, seguendo un  naturale contagio di anomalia. Derelitte e deformate figure, colorate, talvolta, con un nero e rosso simbolico, si muovono e si compongono in una trance allucinata  di decomposizione: parlano una martoriata lingua, senza alcuna forma di abbellimento per l’occhio esterno, anzi  compiacendosi di presentare il  disgustoso e tortuoso viaggio di fuoriuscita dei “mostri della psiche”.
 
La contrazione dei “ritratti” di De Vivo è  divorata da irrequietezze interne che esibiscono una particolare e metafisica  fascinazione per la follia stessa. Suggestioni neoespressioniste vestono percorsi surreali e di arte borderline con  oscure pulsioni che fanno uscire “l’urlo” sotterraneo  di  identità atemporali.
 
Un omaggio creativo  ad un grande artista, come Artaud, può permettere, nel contempo, una riflessione  sulla sua inimitabile e tragica figura. Questa sembra voler nascondere una alchimia per comprendere una soglia “oltre”,  attraversando il delirio con un corpo d’arte e di esistenza, proprio e collettivo.
 
 
“Se sono poeta o attore / non è per scrivere o per declamare poesie / ma per viverle.”  (A. Artaud)  
 

Vitaldo Conte