La croce delle spose

La croce delle spose di Prisco De Vivo.
(tratto dal catalogo Sfilata Trascendentale "Le Spose", ed. Arco&Arco 2007)  

Se ci si pone di fronte all’opera pittorica di Prisco De Vivo dal titolo La croce delle spose, si resta stupiti, e inizialmente irretiti, dalla sua complessità. Ma, come deve succedere in tutte le esperienze artistiche di valore, tale complessità poi cede qualcosa all’occhio di chi interroga. Questo accade, però, gradualmente, per livelli d’osservazione. Bisogna dire preliminarmente che la struttura complessiva del quadro è fatta gravitare intorno ad un ramo dorato: un elemento vegetale applicato sulla tela che ha come corolla quattro dipinti che raffigurano altrettante spose. La composizione dell’opera forma una croce che ha come quattro bracci i dipinti delle donne in bianco.
Volendo allora seguire la priorità degli impulsi visivi che questa composizione regala, bisogna prima di tutto chiedersi il perché di quel ramo. L’analogia immediata che viene in mente, non è pittorica: si pensa infatti, quasi d’istinto, al testo di James Frazer, Il ramo d’oro. In questa voluminosa opera l’antropologo inglese cerca di ricostruire i miti della fertilità della terra e indica come questi rituali magici siano alla base delle successive pratiche religiose. Il mito primigenio da cui parte Frazer è quello di Enea che scende nell’Ade per riportare il padre morto nel mondo dei vivi. La Sibilla cumana consiglierà ad Enea di portare con sé, nel viaggio infernale, un ramo d’oro, simbolo di vita e di rinascita. L’elemento vegetale diventa così il simbolo della relazione tra morte e vita, tra il basso e l’alto, tra l’inorganico e l’organico. Tale relazionalità tra le cose basse e la risalita verso l’alto è l’essenza dei mortali, degli esseri finiti. Questa dinamica primordiale sembra essere la struttura irremovibile dell’umano, la ragione della sua propensione al sacro ed al mito.
Ora, partendo da questo assunto, la tesi di Frazer vuole che non sia la religione a fondare il mito, la magia e l’apparizione del sacro, ma il contrario: il magico, il mito, il sacro sono il fondamento ineludibile ed inestinguibile dell’esperienza religiosa. In questo assunto c’è il legame che unisce nei secoli il magico mondo di Giordano Bruno (filosofo citato spesso dal pittore De Vivo) e James Frazer. Tenendo presente questa premessa, si può azzardare dicendo che in De Vivo il ramo d’oro sia un’intensificazione magica e sacra del tratto pittorico. Il gesto minimale del pittore di appoggiare un ramo sulla tela significa la volontà di riportare il gesto pittorico ad un ruolo primordiale: il tratto è apertura, connessione di terra e cielo, relazione di morte e vita, di morte e resurrezione. Già Heidegger, nei sui scritti sull’opera d’arte e su Van Gogh o su Paul Klee, aveva parlato del <<tratto>> (Zug) pittorico riportandolo alla sua natura metafisica di relazione di terra e cielo. In questo senso un’esperienza pittorica radicale è stata fatta da pittori giapponesi contemporanei che alla Tate Gallery di Londra, qualche anno fa, hanno esposto quadri che avevano come soggetto una sola pennellata di nero sul bianco della tela: vera operazione zen di relazione tra interno ed esterno. Ma lo stesso gesto radicale lo si può riscontrare nella produzione più famosa di Fontana <<i tagli sulla tela>>. In De Vivo tutto ciò assume uno spessore antropico o <<filantropico>> maggiore (per riprendere un’espressione di Furio Jesi).
Il secondo livello d’osservazione lo si ottiene allargando lo sguardo sull’opera di De Vivo: si intuisce la sagoma di un croce. Anche se i richiami del pittore campano sono più spesso rivolti alla classicità del Rinascimento italiano, in linea con un recupero essenzialista di quella stupenda stagione fatta dalla transavanguardia (si pensi a Clemente su tutti), in questo caso non si può non pensare all’iconografia medievale. In particolare esiste una singolare analogia tra la composizione dell’opera di De Vivo e le crocifissioni di Cimabue o di Giotto. Si pensi, ad esempio, alla crocifissione di Cimabue del 1287 conservata a Firenze: qui è raffigurato il Cristo sofferente al centro e la Vergine disposta al lato destro della croce (in un riquadro, in piccolo) e San Giovanni dall’altro lato (sempre in un riquadro, in piccolo). Si pensi poi alla crocifissione di Giotto della fine del ‘300, che a quella del maestra Cimabue s’ispira, con il Cristo morto al centro e la vergine a sinistra e San Giovanni a destra. Si pensi, in genere, a tutto quella tradizione iconografica che commenta la passione di Cristo attraverso i volti e la sagoma della vergine e dei santi posti ai lati del quadro, all’estremità dei suoi bracci. L’analogia con l’opera di De Vivo, dicevo, è singolare perché resta la croce, la sua sagoma, ma viene cancellato il corpo di Cristo. Al suo posto viene posto il ramo d’oro. Ciò che spicca in grande invece sono le sagome delle spose, delle vergini celesti. Il sacro viene riassorbito nel tratto, non permette la rappresentazione di un corpo: è una profondità tutta colta in superficie. Ecco che il mito, la magia, il sacro rivendica la sua originarietà sull’esperienza religiosa. Su questo procedimento si possono fare mille considerazioni. Si può interpretare questo spostamento di fuoco in vari modi. L’esperienza mistica della pittura del medioevo viene riproposta con un nuovo cambio di prospettiva all’apice del razionalismo occidentale. C’è una svolta in cui il razionalismo estremo si ricongiunge con il primitivismo. L’iconografia sacra di De Vivo non è allegoria divina o, quantomeno, il dio a cui lui accenna è tutto assorbito dai colori dalla tela e dai materiali pittorici e vegetali.
Detto questo si passa al terzo livelli dell’osservazione: si scorge la sagoma delle donne in bianco, le spose. Non incontriamo l’immagine di donne piene di vita, come potrebbe essere in un Botticelli. Le spose celesti sembrano gravate dalla malattia del nuovo millennio, l’anoressia. Il debito artistico di De Vivo è in questo caso con l’espressionismo tedesco, in particolare per quanto riguarda i timbri forti che caratterizzano le immagini delle spose. Ma non si deve pensare che quest’ennesimo elemento pittorico complichi gratuitamente la scena. Basti ricordare quali erano le origini dell’espressionismo tedesco, quali erano i suoi propositi artistici. In questo ci aiuta un grande studioso della cultura tedesca e del mito come Furio Jesi.
Jesi, infatti, in vari interventi critici ricorda la priorità dell’esperienza mitica nelle scene di morte dell’espressionismo tedesco. L’avanguardia tedesca tra le due guerre non è impegnata in una mera dialettica storica, come avviene con le avanguardie degli altri Paesi, non mira al semplice rinnovamento dello sguardo. L’espressionismo, pur nella sua grande novità, cerca di richiamare i fondamenti sacri del fare pittorico. Jesi, poi, ricorda il debito della cultura italiana verso quella stagione (ad esempio,in letteratura, nel Pavese della Luna e i falò o del Dialogo con leucò). Questi scrive:

<< […] Ciò che l’espressionismo vede come sacro è precisamente la morte; è la morte il suo grande repertorio di miti. Essa domina nei simboli ricorrenti: la maschera, la donna che è piena di morte come Lulu di Wedekind [corsivo mio], l’assassino, la notte, la città (che è popolata di demoni: cfr. liriche di Heym), il tramonto, il ritorno da un luogo o da un’impresa di morte (motivo del <<reduce>>), la mutilazione, (che può essere castrazione cfr. Hinkemann di Toller), il cimitero come quadro di drammi che hanno per protagonisti dei viventi mescolati coi morti, dalla scena finale di Frühlings Erwachen (Risveglio di primavera) di Wedekind, a quella di Menschen (Uomini) di Hasenclenver, alla scena unica di Ein Geschlecht (Una stirpe) di Fritz von Unruh, che segna pur essa un ritorno al mütterliche Unterwelt (al sotterraneo materno, [tr. mia]).
Si tratta di simboli nei quali si possono riconoscere alterate immagini già presenti nelle mitologie più antiche: esse però sono scisse dall’antico contesto sociale in cui partecipavano della vita quotidiana dell’uomo come immagini positive, benefiche. E’ venuto a mancare l’istituto della morte. Ora quelle immagini sono isolate nella loro extraumanità; di esse si sa soltanto che sono <<cose di questo mondo>>; manca la facoltà umana e sociale di entrare in contatto con esse rimanendo viventi. Esse ormai sono solo accessibili attraverso la morte. Si può riconoscere che esse, come archetipi primordiali, costituiscono la presenza terrifica dell’anorganico all’interno dell’uomo e dinanzi all’uomo: terrifica perché divenuta inaccessibile.>>

Rispondendo a questo stesso richiamo De Vivo, riporta l’<<anorganico all’interno dell’uomo e dinanzi all’uomo>> e lo fa con l’intenzione di resuscitare dall’interno del mondo contemporaneo il sacro che soggiace ad ogni forma. Questa operazione di De Vivo è radicale ma agita con consapevolezza. Non sono di certo estranei all’artista campano tutti i discorsi della sociologia dell’arte sul ruolo che quest’ultima ricopre nella società di massa. Qui sembra che il pittore agisca a partire dalla fine di questa stessa società. Il sacro, l’espressionismo lo dimostra, non è qualcosa di presente in un tempo addietro irrecuperabile: il sacro è nelle forme stesse. Proprio quando queste forme si storicizzano e poi mostrano la loro decadenza s’intravede la luce che le ha sempre sorrette. Come tutti gli artisti radicali, De Vivo vede a partire dalla fine. Nell’ipersemiosi dello sguardo pittorico dell’uomo del XXI secolo si devono riconoscere i caratteri della verità primitiva. In questo non c’è l’evoluzionismo razionalista di un Frazer; in questo De Vivo è più vicino al Wittgenstein critico di Frazer (penso al libro Note sul “Ramo d’oro” di Frazer).
Sintetizzando quindi quanto finora detto, la volontà del pittore è quella di dare risalto alle scene periferiche della composizione visiva annullando il corpo della passione: l’essenzialità primigenia del ramo deve illuminare le vergini moderne. Sono le donne in bianco le protagoniste di un mondo che ha bisogno di essere nuovamente fertilizzato dal sacro. Così due delle donne in bianco sono ricoperte da una luce albale ma hanno sulla stoffa del vestito una macchia dell’oro che caratterizza il ramo posta al centro del quadro; le altre due donne invece sono per lo più coperte dall’oro del ramoscello e poi presentano una macchia di bianco sul busto. Si può scorgere in questo una ciclicità dell’alternanza di fine e resurrezione.

Nell’operazione pittorica di De Vivo persiste un ultimo richiamo che riguarda la scelta del soggetto iconico: le spose. L’artista in una conversazione recente ha fatto cadere la mia attenzione sulla produzione di Marcel Duchamp degli anni ’10. Nel 1912, Duchamp era a Monaco dove inizia a studiare il simbolismo alchemico che lo porterà oltre il naturalismo, pur tenendosi distante dall’espressionismo o dal futurismo. Ma nonostante la distanza stilistica di Duchamp da De Vivo, c’è qualcosa nei soggetti del pittore francese che colpisce quest’ultimo. Il simbolismo alchemico, scoperto dal grande artista francese, attrae a distanza d’anni De Vivo. Duchamp disegna l’acquerello La Sposa messa a nudo dagli scapoli (1912), poi eseguirà due disegni “meccanistici” della Vergine e due dipinti, Il passaggio da Vergine a sposa e Sposa. . La sposa è ritratta in simbiosi con un’automobile, anzi segna il momento d’arresto del suo dinamismo: si potrebbe dire alla Bataille che la sposa di Duchamp simboleggia una dialettica in fase d’arresto. Le spose, le dame bianche, che compaiono in varie opere del pittore De Vivo sono le vergini che celebrano il sodalizio tra razionalismo estremo e primitivismo, tra l’alta modernità (postmodernità, contemporaneità, come dir si voglia) e l’epoca antica. Le spose sono il simbolo dell’irruzione del sacro nell’era del razionalismo compiuto e segnano, per l’occhio di chi osserva, il chiudersi di un cerchio.

Jesi Furio, Pavese, il mito e la scienza del mito, in Letteratura e mito, p. 142, Torino, 2002. Già Jesi aveva intuito l’intento<<filantropico>> (di salvazione del mondo dalla decadenza razionalistica) dell’espressionismo legato indissolubilmente alla stessa esigenza sorta nell’entonologia del tempo (ad esempio Frobenius o Kerényi).

Duchamp non dirà molto della scelta di quel soggetto, affermerà semplicemente: <<Mi preoccupava l’idea della sposa.>> Cfr. Pierre Carbonne, Marcel Duchamp. Artista del ‘900, Milano, 2004, per questi riferimenti e per visionare le opere di Duchamp sopra citate.

Si tratta in effetti di un vero ciclo pittorico che De Vivo ha composto tra il 2003 e il 2004 al quale appartengono anche i quadri La croce della dark-lady, Esmeralda la piccola sposa, Erika la sposa.

Prefazione (Tratto da L'oscuro fiore dell'arte "Conversazione con Enzo Rega e Pasquale Gerardo Santella")

Lo scandalo irrisolto del corpo sembra essere oggi la questione fondamentale. Si potrebbe dire, rubando alla psicologia una sua cara espressione, che la somatizzazione del dolore e la mancata somatizzazione del dolore sono gli attuali dilemmi della filosofia, della poesia, dell’arte e della politica. Come per un’ulteriore rivoluzione copernicana, non più razionalistica ma carnale, l’uomo crede di dovere trovare il proprio centro nelle membra; la domanda che lo sostiene ha il tono dello stupore: ”in un’ipersemiosi simbolica e visiva, cosa farsene ancora di questo busto, questo tronco, questo volto, queste mani? Cos’è il corpo e cosa sono i suoi sintomi, in un mondo che tenta di sollevarsi da terra, che tenta di anestetizzarsi nella visione virtuale della vita?” L’oscuro fiore dell’arte, questo singolare libro d’arte e di pensiero a tre voci, nel suo incedere ermeneutico, nel suo procedere dialogante con le immagini del pittore De Vivo, sembra toccare questo centro problematico; le serie pittoriche dell’artista, le foto delle sue sculture, sembrano essere analizzate dagli interlocutori Rega e Santella proprio tenendo lo sguardo fisso su questo snodo cruciale. Più volte infatti ritorna la domanda sull’<<inattualità>> di De Vivo e sulla sua ostinazione ad occuparsi della figura umana.
Una questione che ritorna, ad esempio, riguarda la serie di ritratti che l’artista ha dedicato al celeberrimo quadro di Munch, L’urlo. Quest’ultimo è diventato negli anni, contro la volontà del suo autore, una specie di gadget, o, per dirla con termini più attuali, un logo da riprodurre su magliette e su tanto altro; è diventato un oggetto di culto fino ad essere rubato sotto lo sguardo vigile delle telecamere di sicurezza del museo di Stoccolma. Il destino di quest’opera non poteva essere più esemplare: il manifesto dell’espressionismo anestetizzato dalla riproduzione visiva e seriale; l’immagine più violenta e terribile, che la storia della pittura ricordi, perde gradualmente la sua forza fino a scomparire, sotto gli occhi di tutti, nella grana sfocata di una telecamera. Si potrebbe dire che il percorso dell’esperienza artistica di De Vivo ripercorra a ritroso il destino di quel quadro.
I ritratti, dedicati a L’urlo, misurano fino a che punto lo sgomento di quel grido possa ancora atterrire, possa ancora disperare in tempo di virtualità e di serialità. Ma questa domanda, o meglio questa scommessa, non viene più posta con gli spuntati strumenti delle avanguardie (giustamente De Vivo dichiara di essere piuttosto in una posizione di <<retro-guardia>>) e neanche con gli oramai inutili strumenti della neo-pop art, ma, e qui si trova la differenza fondamentale, viene posta con una pittura materica che torna ad occuparsi della raffigurazione del corpo. I quadri di De Vivo sono una sapiente commistione di espressionismo, transavanguardia e arte povera. Il percorso della sua esperienza artistica è scandita da modelli forti come F. Bacon, Burri, Munch, Van Gogh, Giannetto Fieschi, Ribera, Bosch. La pittura che ne viene fuori è alla costante ricerca dei toni forti e dei volumi, i colori sono usati come grumi che ridefiniscono un volto. De Vivo riafferma la priorità del tratto e del disegno nella composizione pittorica, e in questo dimostra d’essere un vero talento.
La sensazione costante che si ricava, nell’osservare le foto dei ritratti e delle sculture contenuti in questo libro, è la gravità di volti che cercano nell’impasto dei materiali la ragione stessa della loro necessità metafisica. Questi corpi, questi volti, vogliono essere tutti necessari: vogliono esserci e vogliono esserci come l’indicazione e come lo spazio stesso dell’essenza sacra del mondo. Del resto è possibile annotare un passaggio della conversazione di Rega con De Vivo dove quest’ultimo, alla domanda se si <<identifica come uno degli ultimi pulsionali espressionisti>>, risponde dicendo: <<La scelta dell’Espressionismo fa sì che io mi serva di esso non solo come di semplice medium, ma lo utilizzi come forma e contenuto di una ricerca di verità, che au fond ha per oggetto il trascendente. L’arte espressionista di questo secolo si è sempre prepotentemente pro-gettata in funzione del sacro, del metafisico, attraversando i bisogni viscerali e primari dell’uomo.>>
I ritratti che vengono proposti sono quelli di personaggi dolenti: c’è il volto di Leopardi, quello di Gramsci (affrontato con l’utilizzo di materiali umili come la cenere), c’è il volto di Kafka. Il ritratto dello scrittore praghese è quello che colpisce di più. La bombetta calzata da Kafka è tagliata perpendicolarmente da un ramo secco, un vero ramoscello appoggiato alla tela. Quel richiamo primitivo, l’accostamento di un segno artificiale (quello pittorico) e uno vegetale è il simbolo più forte della produzione di De Vivo. Il pittore vuole recuperare dopo tutte le avanguardie, dopo tutta l’ipersemiosi strutturalista, volendo usare una categoria filosofico-letteraria, il senso sacrale dell’arte e della raffigurazione in particolare. Ma questo non avviene ingenuamente, l’accostamento dei due segni, artificiale e vegetale, lo dice: è all’interno del mondo complesso che bisogna agire con la consapevolezza di un rimosso irriducibile. In De Vivo il rimosso è quello del dolore e della gravità del corpo.
Forse, si potrebbe dire, con un'altra formula a me più cara: è proprio quando un mondo ha mostrato tutte le sue possibilità, e quindi si avvicina alla sua fine, che il nucleo di mistero che lo regge ritorna a risplendere. Nel vedere il ritratto di Kafka mi è venuto da pensare, per un’analogia immediata, allo scritto di Wittgenstein Note sul “Ramo d’oro” di Frazer. Il filosofo, nel commentare l’opera dell’antropologo, rifiuta l’idea di un progresso scientifico che annulli la componente misterica del mondo e delle nostre <<forme di vita>>; sottolinea, invece, come la ritualità di tutti i linguaggi, il loro essere mondano, non escluda mai una loro contemporanea funzione mitologica e sacrale.
Santella e Rega, a loro volta, ricordano come una certa filosofia abbia un’importanza fondamentale nella composizione artistica in genere e in quella di De Vivo in particolare. De Vivo fa il nome di Heidegger, di Cioran, di Bruno, di Ceronetti e di Sgalambro come suoi pensatori di riferimento, dice che la filosofia, più che la critica d’arte, è la naturale musa dialogante della pittura e, in questo, si dimostra pienamente heideggeriano. L’opera d’arte è il luogo deputato per ricalibrare la sacralità del tutto ed il tutto, il cosmos, è qui brunianamente il corpo, la materia del volto e delle membra.
Il libro L’oscuro fiore dell’arte è proprio dedicato alla memoria del filosofo nolano e una sua citazione nel testo suona cosi: “tutto ciò che è misero, triviale e meschino serve a completare lo splendore del tutto”. Si potrebbe quindi aggiungere, ancora brunianamente, che dall’infinito terrestre si ricava l’infinito celeste. Ma il punto è che questi infiniti sono del tutto materici, cioè attengono alla materia e alla concretezza del volto, è lì che si radicano e mettono le radici; se così non fosse l’opera di De Vivo sarebbe l’ennesima postilla strutturalista alla semiosi infinita dei segni. Come lui consapevolmente sottolinea, in un passaggio di una conversazione con Santella, a proposito dei <<valori deboli>> della società contemporanea: <<Purtroppo l’arte si adegua; mette da parte la sua carica eversiva e straniante per presentarsi in una veste superficiale, brillante, seducente, per imporsi sul mercato come merce da consumare, esibire, conservare e riducendosi così ad un guscio vuoto, materia desemantizzata.>>
Se così agisse anche questo pittore di talento, il gioco dei rimandi infiniti si concluderebbe di nuovo nel volto sgranato di un’immagine rubata e scomparsa nel nulla, sotto gli occhi di tutti.

Vincenzo Frungillo