L’oscuro fiore dell’arte
L’oscuro fiore dell’arte
(Presentazione del catalogo "L'oscuro fiore dell'arte" ed.Il Laboratorio (NA) pubblicato sul quotidiano "Piazza Libertà")
L’arte, quando è vera arte, deve avere il coraggio dell’azzardo e della scommessa. Un colpo di dadi nel quale si gioca l’incontro – scontro fra lo sguardo dell’artista e l’occhio dello spettatore: e i loro rispettivi sistemi psico-nervosi. Così i volti e i corpi tormentati delle opere di De Vivo (ricordando, anche se con diverso intervento grafico e cromatico, Francio Bacon) non possono non “urtare“ la suscettibilità, la sensibilità dello spettatore addomesticato dal tranquillo estetismo del soporifero bombardamento massmediatico. La sua - inutile sottolinearlo – non è un’estetica del bello. Ma, a distanza di un secolo, ha il coraggio, perché si tratta di coraggioso gesto artistico, di riproporre reiteratamente – di nuovo, e ancora di nuovo – la bocca spalancata dell’Urlo di Edvard Munch. Ma l’arco di quelle labbra, passato attraverso tutto l’arco del novecentesco secolo breve (così breve perché di troppi errori pieno, oltre che di progressi che non sono bastati a evitare questi errori) ha finito per significare – è diventato – in De Vivo il buco nero del forno crematorio di Auschwitz.
Ma, poi, ancora, un imbuto ha chiuso quell’apertura, per costringere a ingurgitare pietre, facendo passare dentro di noi, incorporare, gli orrori di una vita che – sartrianamente – non abbiamo scelto.
Ma, come segno, anche questo imbuto, che in altri casi è copricapo (è direttamente sul cervello che vogliono intervenire), viene da lontano: proprio come copricapo lo ritroviamo in Bosch.
Come da lontano viene l’altro riferimento dell’uovo, addirittura da Piero della Francesca, sospeso sulla testa delle figure rappresentate, o addirittura, nel caso delle sculture, posto, pesando, direttamente sul capo (al posto dell’imbuto). Uovo primigenio, simbolo del brodo primordiale o dell’anassimandreo aperiron delle origini (col quale il mondo greco classico intuì, precedendo Giordano Bruno, il fascino e l’angoscia degli spazi e dei tempi infiniti ed eterni). Ma allora qui De Vivo scarta dal ripiegamento su un definitivo e nichilistico pessimismo. Se l’imbuto ero lo sprofondare nel gorgo, l’uovo è la possibilità della rigenerazione, di una psicodinamica seconda nascita.
Una esigenza di salvezza si presenta nell’opera di Prisco. Le sue figure giacomettiane si collocano anche sotto ombrelli, prima neri e poi rossi, dunque colorati: e qui il pittore sembra riprendere quella ricerca del colore che aveva caratterizzato l’espressionismo originario, e che si era offuscato in neoespressionisti come Miquel Barcelò e in Martin Disler – per riemergere però nella ricerca di Baselitz. Era il mondo che sembrava sempre più inghiottire la luce per non più restituirla, uniformandosi in grigi e neri. Ora , invece, di nuovo l’irruzione del colore con quegli ombrelli, che sono forse anche ripari, forse cupole di una qualche chiesa sotto la quale, kierkegaardianamente, gli uomini sono spinti dall’angoscia: riscatto e redenzione sono esigenze esistenziali ma non ancora conquiste definitive. Come per il filosofo Walter Benjamin, teso fra teologia e utopia, e stroncato dal peso senza rimedio della realtà.
Ma dalla natura, forse spiritualizzata, di sicuro umanizzata, l’artista De Vivo, appassionato bruniano, cerca qualche risposta.
Alcune sue sculture, come tronche di legno abbruciati, sembrano nascere dalla terra per diventare, in una accelerazione darwiniana, teste di uomo, anche se ancora petrose. Marcusianamente, all’arte si affida un compito di riscatto rispetto alla banalità del male, ma ciò avviene ancora confuasamente. Perciò, questa pianta dell’arte, questo fiore è oscuro: il tronco da cui nasce e di cui si nutre è nero di fumo.
06 maggio 2000
Enzo Rega